Concerto transumante per flatus vocis
Concierto trashumante por flauto vocis
"Sobrevivimos inventando ruidos para salir a tomar un café que es este de aquí:" nghe, "que no es más que una mala imitación barata de las puertas cerrandose del metro y cuando oyes este ruido los más interesados se voltean y miran, y con la mirada continuar la conversación:(...) ( http://www.maurofolci.it/language/it/concerto-transumante-per-flatus-vocis/ )
Concerto transumante per flatus vocis
Voci al vento
“Sopravviviamo inventando il rumore per uscire a bere il caffè che è questo qua ‘nghe’ che non è altro che l’imitazione brutta della chiusura di una porta della metropolitana e quando si sente questo rumore i diretti interessati si girano e guardano e con gli sguardi proseguiamo nella conversazione lo sguardo dice esci a bere il caffè se tu fai così l’altro capisce che non puoi, è tutto un linguaggio muto, muto o di versi”.
Fabio
Fabio è un lavoratore ‘esternalizzato’ con la prospettiva molto probabile di entrare nel girone infernale del precariato e della flessibilità, quello cioè regolato dai contratti atipici e temporanei nei cui articoli e clausole si leggono termini come ‘somministrato’, ‘interinale’, ‘co.co.co.’, ‘lavoro in affitto’; contratti di pochi mesi con il ricatto che fino all’ultimo minuto non venga rinnovato. Lavora in un call center, in un autentico non luogo, in un anonimo palazzone di una anonima e squallida periferia milanese. Orari massacranti e nessun diritto. Chi entra in un call center lascia alla porta la propria identità per assumerne una numerica “io sono la 19042156”. È in questo contesto lavorativo opprimente e umiliante che nasce l’anatrare di Fabio, un ‘nghe’ molto simile al verso di un’anatra, un linguaggio animalesco che racconta dell’assurdità carceraria di un call center per cui essendo vietato parlare tra colleghi l’unica comunicazione possibile per sfuggire al controllo dei capetti, magari solo per prendere un caffè insieme, è quella “a versi di animali”. In quell’anatrare noi intravediamo una “voce vuota” che ci parla, a volerla ascoltare attentamente, di resistenza alla tirannia della produzione e della voglia di riprendersi la vita.
Voce vuota
È la voce indifferenziata dell’animale prima ancora che nel linguaggio si articoli in parole, è suono privo di contenuto. La “voce della natura” è il nostro “fondo biologico”, è soffio vitale e pura energia creativa che risiede nel “preindividuale linguistico”. È il ‘rumore bianco’ del respiro, del flusso sanguigno, del tendersi dei tendini, della bile, una voce indicibile che si pone sul versante abissale di ciò che è ‘animale’ dell’individuo ‘umano’. “La sua natura è essenzialmente fisica, corporea; ha relazione con la vita e con la morte, con il respiro e con il suono; è emanata dagli stessi organi che presiedono all’alimentazione e alla sopravvivenza”. (C. Bologna) È il lamento del corpo e i suoni dell’anima: il muu della mucca, l’ohi della partoriente, è il nghe di Fabio che trasborda quale indistinto flusso di vitalità, spinta confusa al voler-dire, in una espressione forte di resistenza e di rivolta.
Trasloco, transumanza, traduzione
C’è una casa. È una casa abitata, con tutti i suoi oggetti, i mobili, i libri, gli elettrodomestici, gli album fotografici di famiglia, uno spazio del sé sedimentato da strati di memoria e carico di ricordi affettivi. È una casa che conserva i segni del passaggio del tempo, un calendario fatto di simboli indelebili. Si tratta, ora, di pensare la sua nudità, di svuotarla di tutto, di “espropriarla di ogni suo ‘proprio’” per poi lasciarla nuovamente occupare da una moltitudine di persone come fosse una mandria animale. Una casa svuotata per meglio disporsi all’ascolto dell’alterità originaria, per ospitare e lasciarsi contaminare da un gregge di uomini e donne che pian piano si accalca e si cementa, nel contatto corporale, in una dimensione bestiale, primordiale e sacrale. Un vero trasloco, una carovana di uomini e cose, una transumanza animale, una traduzione di luoghi: ognuno porta e lascia qualcosa, ognuno traduce e tradisce qualcosa.
M. Folci
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